Orientable
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mercredi 10 septembre 2008
Souvenirs
Rispettabile Giudice sul Mulo,
Già da tempo frequento le pagine del Suo spazio letterario, affascinato dalla qualità delle pubblicazioni e dall’elettrica vivacità delle discussioni che alcune di esse suscitano. Come esprimerLe la gradevole sorpresa di ritrovarmi in un lungo dove si sviluppano sì fervide contaminazioni d’esperienze, vere, veritiere o frutto di magistrali finzioni? Che poi, Lei m’insegna Signor Giudice, non è questo che conta in arte.
Signor Giudice, mi trovo, ben presto da un lustro, lontano d’Italia. Da tale distanza, fisica e culturale, le Sue parole risuonano alle mie orecchie in tutte le tonalità della nostalgia. Come spiegarLe il senso d’estraneità, di solitudine addirittura, che può colpire in giornate plumbee, uno spirito lontano dalla propria terra? Il paese di Tartuffe, Lecoq e Gaulier, non si presenta sempre così sorridente. E la lontananza dal popolo del Dolce Stil Novo può diventare, a momenti, straziante. Il suo spazio, così, è diventato per me un appiglio, un rifugio, un dolce cullarsi fra le corrispondenze degli animi.
“Ah l’Italia è sempre l’Italia”, intona chi in Italia non è più andato, ma “all’estero si stava meglio” risponde chi in Italia invece è tornato. Ed io, Signor Giudice, che mi trovo lontano dai miei luoghi d’origine, non sicuro di rivederli, ed incerto sul formare una nuova casa altrove, non so a chi dar ascolto. “Ascolti il suo cuore”, mi potrebbe suggerire Lei, ma il mio cuore, Signor Giudice, l’ho lasciato in troppi posti, perché in questi anni, ne ho visti di posti e di gente. Ho visto facce che Lei non può nemmeno immaginare, risate sdentate di vecchi ristoratori asiatici e lacrime nere di rimmel sui visi di giovani donne che ho amato, e corpi stanchi e nodosi che danzano come per incanto all’alba nel lago, seguendo nell’aria ginnastiche indescrivibili. Rammento il sapore di cibi esotici cotti a lato di strade trafficate, in un inverno umido, e quei grattacieli, mirabile prodigio dell’ingegno umano, mirabile prodigio dell’angoscia dell’uomo. Ricordo giornate afose ed il sapore della nebbia sulla lingua. Rimembro uova nere cotte nel tè, il chiosco dei dolci il sabato mattina e polli in gabbia nel mercato di Taipei. Rammento monaci buddisti prendere la metropolitana e ragazzine in minigonna camminare lentamente su scarpe dai tacchi vertiginosi. Ricordo ragazzini dalle mani sporche di terra leggere per ore riviste in libreria ed uscire finalmente senza comprar niente. E riecheggiano, invece, i suonatori di Jazz, sui boulevard illuminati, in cerca di ticket-restaurant. Ricordo vecchi clochard dal naso rotto domandarmi due euro per un panino. Ricordo il tempo passato ad osservare un muro grigio di pioggia interminabile, attraverso finestre di un posto che ho chiamato casa.
Signor Giudice, il mio cuore è davvero in tanti luoghi, che a dire il vero, non saprei più dov’andarlo a cercare. Lo so Signor Giudice, mi ha già preso per un altro Cagliostro e la sento suggerirmi con tono austero: “si metta in riga, decida insomma dove vuole andare”. Non è come pensa, Signor Giudice, ma non voglio annoiarla con queste chiacchere. La ringrazio invece per questo Suo spazio e la prego, Signor Giudice, sia indulgente.
Le invio i miei più rispettosi saluti,
Carlo Ferri
P.s. Mi permetto d’allegare poche righe che ho avuto il piacere di scrivere. Vedere la loro pubblicazione, sulle Sue pagine, sarebbe per me gran gioia.
Già da tempo frequento le pagine del Suo spazio letterario, affascinato dalla qualità delle pubblicazioni e dall’elettrica vivacità delle discussioni che alcune di esse suscitano. Come esprimerLe la gradevole sorpresa di ritrovarmi in un lungo dove si sviluppano sì fervide contaminazioni d’esperienze, vere, veritiere o frutto di magistrali finzioni? Che poi, Lei m’insegna Signor Giudice, non è questo che conta in arte.
Signor Giudice, mi trovo, ben presto da un lustro, lontano d’Italia. Da tale distanza, fisica e culturale, le Sue parole risuonano alle mie orecchie in tutte le tonalità della nostalgia. Come spiegarLe il senso d’estraneità, di solitudine addirittura, che può colpire in giornate plumbee, uno spirito lontano dalla propria terra? Il paese di Tartuffe, Lecoq e Gaulier, non si presenta sempre così sorridente. E la lontananza dal popolo del Dolce Stil Novo può diventare, a momenti, straziante. Il suo spazio, così, è diventato per me un appiglio, un rifugio, un dolce cullarsi fra le corrispondenze degli animi.
“Ah l’Italia è sempre l’Italia”, intona chi in Italia non è più andato, ma “all’estero si stava meglio” risponde chi in Italia invece è tornato. Ed io, Signor Giudice, che mi trovo lontano dai miei luoghi d’origine, non sicuro di rivederli, ed incerto sul formare una nuova casa altrove, non so a chi dar ascolto. “Ascolti il suo cuore”, mi potrebbe suggerire Lei, ma il mio cuore, Signor Giudice, l’ho lasciato in troppi posti, perché in questi anni, ne ho visti di posti e di gente. Ho visto facce che Lei non può nemmeno immaginare, risate sdentate di vecchi ristoratori asiatici e lacrime nere di rimmel sui visi di giovani donne che ho amato, e corpi stanchi e nodosi che danzano come per incanto all’alba nel lago, seguendo nell’aria ginnastiche indescrivibili. Rammento il sapore di cibi esotici cotti a lato di strade trafficate, in un inverno umido, e quei grattacieli, mirabile prodigio dell’ingegno umano, mirabile prodigio dell’angoscia dell’uomo. Ricordo giornate afose ed il sapore della nebbia sulla lingua. Rimembro uova nere cotte nel tè, il chiosco dei dolci il sabato mattina e polli in gabbia nel mercato di Taipei. Rammento monaci buddisti prendere la metropolitana e ragazzine in minigonna camminare lentamente su scarpe dai tacchi vertiginosi. Ricordo ragazzini dalle mani sporche di terra leggere per ore riviste in libreria ed uscire finalmente senza comprar niente. E riecheggiano, invece, i suonatori di Jazz, sui boulevard illuminati, in cerca di ticket-restaurant. Ricordo vecchi clochard dal naso rotto domandarmi due euro per un panino. Ricordo il tempo passato ad osservare un muro grigio di pioggia interminabile, attraverso finestre di un posto che ho chiamato casa.
Signor Giudice, il mio cuore è davvero in tanti luoghi, che a dire il vero, non saprei più dov’andarlo a cercare. Lo so Signor Giudice, mi ha già preso per un altro Cagliostro e la sento suggerirmi con tono austero: “si metta in riga, decida insomma dove vuole andare”. Non è come pensa, Signor Giudice, ma non voglio annoiarla con queste chiacchere. La ringrazio invece per questo Suo spazio e la prego, Signor Giudice, sia indulgente.
Le invio i miei più rispettosi saluti,
Carlo Ferri
P.s. Mi permetto d’allegare poche righe che ho avuto il piacere di scrivere. Vedere la loro pubblicazione, sulle Sue pagine, sarebbe per me gran gioia.
Libellés :
Lettera
lundi 8 septembre 2008
Sull’organizzazione dei sogni
E poi, mi sono svegliato questa mattina e ti ho chiamato. E solo la mia voce risuonava nella casa bianca di solitudine. E poi, sono andato in cucina e mentre preparavo il caffé guardavo come ebbro la tazza vuota, immobile sul tavolo. E mi sono chiesto se quella sensazione d’estraniazione non ce l’avessi perché stavo ancora sognando. Sognando d’essere me stesso senza di te, con te affianco sotto le lenzuola. E mi rendo conto che la tua mancanza mi è insopportabile quanto la tua presenza lo era allora. E poi, il caffé appena pronto, che sto bevendo, mi brucia le labbra e mi strilla addosso: sei sveglio cretino. E la partenza, la tua distanza si misura negli scaffali vuoti della libreria, buchi lasciati a ricordarmi: tu idiota l’hai cacciata dalla tua vita. E la casa tutta ha perso la propria ragione, una scatola cinese che ne nasconde al suo interno un’altra ed un’altra ancora. E mi perdo in questo labirinto di sentimenti contrapposti. Vorrei addormentarmi con te e svegliarmi senza di te. E viceversa. Ma ora la casa è vuota. Vuota della tua risata, che tutta la faceva risuonare. Vuota delle composizioni di fiori secchi sul tavolo. Vuota delle tue cose, che si mischiavano alle mie. Vuota dei profumi che seguivo camminando scalzo sul parquet. E dietro di te hai lasciato solo traccia di qualche giornale letto, caratteri che s’inseguono l’uno sull’altro, che a me poi sono sempre sfuggiti, scivolati dalle pieghe della memoria. Eppure, nonostante il sogno, tu hai lasciato la tua impronta dentro di me. Tu e la tua razza e la tua odiosa cultura siete venute fin qui, fin dentro questa casa, nei luoghi più intimi del mio essere a insozzare la mia vita. A renderla unica. A dirmi che siamo solo, che siamo soli, nel confronto con l’altro. E poi ti sei congedata lasciando dietro di te quel maledetto libro. E c’hai scritto sopra nei caratteri dolci della tua bella calligrafia : uomo o farfalla?
Libellés :
Racconto
dimanche 7 septembre 2008
Soluzione di continuità
Ieri ho messo a posto la bicicletta di mia zia. E’ una vecchia bicicletta rossa. Era rimasta per molti anni chiusa in cantina. Come prima cosa l'ho portata fuori in cortile. L'ho messa sul cavalletto e sono rimasto ad osservarla per un po'. Era molto sporca ma non sembrava troppo malridotta. Il telaio descrive delle curve eleganti. Le ruote sono ampie e sottili. I raggi dei cerchioni sono ben conservati. Le leve del cambio sono posizionate sulla canna trasversale, come in tutte le vecchie biciclette, vicino al gancio della borraccia, ma su questa il gancio non c'è. Sul manubrio è incastonato un contachilometri. È una bici da corsa. Tutti i componenti sono ben rifiniti. Ma il contachilometri non funziona più, sono passati molti anni. L'ho spolverata e mi sono procurato degli attrezzi. In cantina ho trovato una vecchia cassetta piena di chiavi ed altri strumenti ideali al mio scopo. Prima di tutto ho disposto il sellino in modo corretto. Poi ho smontato i parafanghi ed il portapacchi della ruota posteriore. A questo punto la bicicletta si è rivelata snella. Mentre la guardavo non ancora certo di cosa dover fare in seguito, è arrivato nel cortile il figlio dei vicini. Ha poco più di dieci anni. Gli ho chiesto cosa pensasse della bicicletta e lui mi ha risposto che era molto bella ma anche sporca. Poi mi ha consigliato di cambiare le pasticche dei freni perché a suo avviso erano troppo vecchie. In effetti, sono molto vecchie ma ho risposto che non volevo perdere tempo o comprare nuovi pezzi. Allora mi ha spiegato che sarebbe bastato semplicemente regolarli un po'. Si è anche offerto di aiutarmi. L'ho ringraziato dicendo che sicuramente mi sarebbe servito un aiuto. Seguendo il consiglio del mio nuovo compagno di lavoro ho regolato i freni e gonfiato le ruote. Infine abbiamo messo un po' di grasso per oliare la catena e gli ingranaggi del cambio. La parte più difficile tuttavia è stata la pulizia. Il mio compagno ha insistito parecchio. Ha voluto che la bicicletta splendesse e così siamo rimasti molto tempo a pulire ogni piccola parte. Lui è molto attento. Abbiamo lavorato duramente. Non siamo molto bravi in questo genere di cose, ma crediamo di aver fatto un modesto lavoro ieri mattina. Abbiamo guardato di nuovo la bicicletta, liberata degli accessori inutili, ridotta all'essenziale, appare più agile. Quando era ancora nuova, appena comprata intendo, immagino apparisse ancora più bella. Sarà stata pagata parecchio. A noi è costata qualche ora di lavoro. A questo punto il mio compagno ha voluto provarla per primo. La bicicletta è molto grande per la sua statura ma è riuscito lo stesso a salire ed a fare un giro in cortile. Poi improvvisamente è venuto a piovere.
Questa mattina mi alzo di buonora. Sono impaziente di vedere com'è il tempo. Sembra buono e allora decido di uscire subito. Mangio una pesca in cucina e bevo un po' d'acqua dopo essermi infilato un paio di calzoncini sportivi. Trovo un vecchio marsupio. Porto con me un po' di soldi e le chiavi di casa. Una volta in strada mi rendo conto di non sapere dove andare. Non faccio spesso della bicicletta. Anzi, a dire il vero, non ne faccio mai. E così non so nemmeno i percorsi della zona. Ricordo che da piccolo avevo un amico che abitava in un paese poco lontano da qui. È una bella zona e la conosco piuttosto bene. Decido di partire verso quella direzione, ma prima devo passare da un distributore per gonfiare bene le ruote, con un compressore. Arrivo al più vicino. Non ci sono macchine a fare rifornimento di carburante, allora chiedo ad un signore anziano seduto, se posso gonfiare le ruote della bicicletta di mia zia. Ha la pelle bruciata dal sole e dalle esalazioni di benzina, mi guarda divertito, si gira verso un altro e ciancica in dialetto che vado in bicicletta per risparmiare. A me la sua battuta non fa molto ridere, perché da un certo punto di vista è vera. Gonfiamo le ruote, lo ringrazio e parto. Sono di nuovo in sella. Il primo pezzo di strada è in discesa. Sono un po' intimorito dagli autisti che sfrecciano incuranti a pochi centimetri da me. Solo alcuni rallentano e adottano l'adeguate distanze per superarmi. Decido allora di prendere delle strade meno trafficate per uscire dalla città. Abbandono la principale e comincio ad andare per vicoli paralleli, ogni volta che rischio di capitare su qualche arteria devio allungando un po' il giro. Ne risulta un percorso tortuoso. Tuttavia mi sento più tranquillo e comincio a prendere confidenza con il cambio. Ogni tanto mi trovo su qualche falsopiano e le salite per quanto leggere mi affaticano. Non pensavo fosse così duro fare del ciclismo. Mi accorgo ben presto di essere capitato sul percorso del tram, da noi lo chiamano anche metropolitana di superficie. Le rotaie attraversano l'asfalto, devo fare attenzione a non finire con le ruote al loro interno, potrebbero rimanere intrappolate. In più ci sono le reti e le impalcature dei cantieri ancora aperti ovunque, perché la metropolitana di superficie non è ancora terminata. In effetti, non so se sarà terminata, perché i lavori sono stati interrotti. In città si mormora che siano finiti i soldi e c'è chi sostiene che anche completato non servirà a molto il tram. Continuo a pedalare sulla strada deserta facendo attenzione alle rotaie che da qualche parte sono già installate ed in altre non ancora. Finalmente vedo qualcuno, c'è una ragazza che parla al telefono appoggiata alla fermata di un autobus. Poco più avanti vedo l'autobus che forse sta aspettando la ragazza, eccetto l'autista è vuoto. Le rotaie della metropolitana svoltano a sinistra ed io le seguo. S’interrompono ad un incrocio. Mi ritrovo sull'arteria principale. Decido di attraversarla e di salire dall'altra parte. Fortunatamente c'è un semaforo, qui le macchine sono molto veloci. Appena scatta il verde comincio a pedalare. Adesso la strada diviene ripida, m’incammino verso il primo paese. Le macchine sono ormai rare. Per la salita sono costretto a scalare qualche marcia, ma ben presto so che entrerò in paese e potrò prender fiato. Le strade per un breve tratto fra le case sono lastricate, la bicicletta traballa quando le ruote finiscono tra le fessure del pavè. Attraverso il centro e la strada è di nuovo ricoperta d'asfalto, è una salita. Sono costretto a mettere la marcia più leggera. Dopo mezzo chilometro incontro un primo ciclista, scende a gran velocità. Non capisco che età abbia perché il suo volto è nascosto tra il casco e gli occhiali da sole. In effetti, non faccio troppa attenzione, sono concentrato sulla salita. Questo pezzo è veramente ripido e devo cercare di mantenere il ritmo costante. Il sole é incollato al cielo e devo alzarmi sui pedali se voglio arrivare in cima. Finalmente la pendenza diminuisce e posso sedermi nuovamente sul sellino. Qui le macchine non sono molte, posso rilassarmi. Comincio a guardarmi attorno. Al bordo della strada ci sono piante da frutta selvatica. Si stendono campi, alcuni coltivati. Ogni tanto c'è una casa. Ovunque s’intravedono i profili di montagne, mi trovo in una piccola valle. È una giornata luminosa, senza nuvole. La pendenza diminuisce fino a trasformarsi in una soffice discesa, acquisto velocità. Ho il vento nei capelli. Sento il contatto della maglietta sul corpo. Ascolto il rumore delle ruote che corrono veloci sull'asfalto e sono evocati ricordi d'infanzia che credevo persi. Sento crescere dentro di me una sensazione di benessere improvvisa. Due cani di grossa taglia al bordo della strada si alzano e m’inseguono per un breve tratto, ma io sfreccio dietro la curva. Dopo meno di un chilometro la strada comincia a cambiare e mi ritrovo nuovamente in salita, posso rimanere seduto perché la pendenza non é molta. In fondo al rettilineo che attraversa i campi c'è il paese del mio amico d’infanzia. Ora lui è venuto in città. Il paese è diviso in due. La vecchia parte é nella zona più alta, poi una ventina d’anni fa imprenditori hanno cominciato a costruire, prolungandolo giù a valle e non si sono più fermati. Nella parte vecchia ci sono alcune case abbandonate, nessuno le ha ristrutturate ed ora sono abitate dal bosco. Supero la piazza principale dove un bambino fa la pipì appoggiato ad un albero, una donna gli regge i pantaloni. Salgo per i vicoli stretti, ma qui la pendenza diventa troppa per me. Mi fermo a chiedere ad una signora dove posso trovare una fontanella per bere un po' d'acqua potabile. Mentre mi risponde si aggiusta i capelli. Salgo ancora un po' a piedi per delle scale ed arrivo ad una piazza. Bevo parecchia acqua e mi bagno la faccia ed i capelli. Da qui è possibile vedere una gran parte della regione. Mi rendo conto d'aver fatto molta strada. La città s’intravede dietro delle colline. È una giornata fantastica e la vista è meravigliosa. Sono assorto a guardare ed a riconoscere i passaggi che ho attraversato questa mattina. In fin dei conti non è poi tanto male qui. E improvvisamente la realtà si materializza in un ragazzone che sfreccia per le stradine del paese con uno scooter di grossa cilindrata. Non porta il casco ed i suoi capelli sono marmorizzati sulla testa con della lacca. Discendendo l’incontro un altro paio di volte. Fa sempre lo stesso giro come un forsennato. Ho un’incessante voglia di rimettermi in strada. Passo per la piazza principale, il bambino e la donna non sono più lì, mi accorgo di un manifesto affisso alle pareti di una casa, recita: "Max Zapelzi live". È il concerto di chiusura di una manifestazione religiosa che si svolge ogni anno in città. La manifestazione è molto amata dalla popolazione della provincia. Ma quest’anno si mormora che sia un po' sotto tono. C'è chi dice che non siano stati chiamati molti artisti perché sono finiti i soldi a disposizione. C'è addirittura chi sostiene che la città abbia un debito di diversi milioni d’euro. Non riesco a capire come siano finiti questi soldi. Un tempo avrebbero scritto "Max Zapelzi in concerto". Chissà perché mi viene in mente che un giorno scriveremo in chissà quale lingua, forse in cinese. Il manifesto è incollato affianco ad una porta sulla quale una vecchia targa informa che quella è una sezione del P.c.i.. Scendo dalla bicicletta e guardo attraverso una finestra che da sulla strada. All'interno intravedo solo sedie rotte e delle tegole affilate contro una parete, tutto il resto è in ombra. Questa sezione non ha più nemmeno un iscritto. Il manifesto di Zapelzi, invece, è stato ben attaccato. Allora decido di rimettermi in strada. Fortunatamente poco più avanti c'è un piccolo maneggio. In realtà è un terreno recintato con un ricovero al centro dove alcuni cavalli sono lasciati liberi. Loro avvertono la mia presenza ma non sembrano infastiditi. Brucano erba quando improvvisamente uno dei tre alza la testa e comincia a correre per qualche secondo. È molto elegante. Sembra ben curato. Cerco di immaginare chi possa essere il proprietario. Mi rimetto in strada. Decido di proseguire in salita. Non sono sicuro di potercela fare, ma vorrei provare ad arrivare fino al più lontano dei paesi della zona. Così comincio a pedalare. La pendenza non è molta ma è costante e comincio a sudare parecchio. A sinistra della strada scorre un piccolo corso d'acqua. Sugli alberi, giusto di lato, c'è affisso un cartello che avverte che qui è vietata la pesca. La zona è molto bella. Mi trovo in una striscia di terra sul versante anteriore del monte. A fianco del torrente ci sono dei campi, perlopiù incolti, oltre i campi si percepisce netta la linea del cambiamento di pendenza, dove gli alberi abbandonano l'insenatura e si inerpicano verso la cima. Anche alla mia destra salgono alberi. La strada segue il torrente, l'asfalto è ben conservato, ma ormai le macchine non passano più. Qui incontro il secondo ciclista, scende. Mi fa un cenno con la mano ed io contraccambio. Lui, come me, non porta il casco, è molto abbronzato e potrebbe avere quarantacinque anni o forse più. Ma la sua attrezzatura è più moderna della mia. Indossa una maglietta e calzoncini aderenti, la bicicletta è nuovissima, o almeno così mi sembra. Io invece indosso pantaloncini larghi, blu ed una maglietta di cotone. Non sono abbronzato ed in più la mia bicicletta sarà tre o quattro volte più pesante della sua. Lui probabilmente è un ciclista. Io in un certo senso assomiglio a come doveva apparire lui negli anni ottanta. Questo pensiero mi fa sorridere. Continuo a pedalare. Quando raggiungo finalmente il paese sono interamente bagnato di sudore. Nella piazza c'è una vecchia fontana. Un'esile cannella fa sgorgare dell'acqua nell'ampia vasca rettangolare. Un tempo le donne venivano a lavare la biancheria in fontane del genere. Non sono sicuro se l'acqua sia potabile. Non so a chi chiedere, il paese sembra deserto. Porto un po' d'acqua alla bocca. È freschissima. Poi mi giro e chiedo ad alta voce se l'acqua sia buona. Una voce dal vento mi risponde all'imperativo, esortandomi a bere due volte. Allora mi disseto. Bagno i capelli e lavo la faccia. L'acqua mi rigenera. Poi mi stendo su un muretto assolato presso la fontana. Chiudo gli occhi. Non mi curo della bicicletta, non ho alcun timore, non credo che nulla possa accadere. Ascolto il suono dell'acqua nella fontana, il silenzio del paese. Mi riposo.
Non deve essere passato molto quando riapro gli occhi. Impiego un po' di tempo prima di abituarmi alla luce del sole. Seduto, appoggio il palmo delle mani sul muretto caldo. Una leggera polvere bianca vi rimane attaccata. La maglietta è bagnata sul dorso di sudore. Mi rimetto in sella e faccio un giro nel paese. Le strade conducono a serrande chiuse di vecchie cantine. Le rare voci si perdono nel sole abbaiante. La pietra bianca delle case si veste di giallo, ed i raggi scendono forti come fiamme. Guardo le veneziane ferme delle finestre e mi diverto ad immaginare quali passioni abbiano celato dietro la loro ombra. Quali vite si siano lì consumate. Ora il paese sembra morto e forse lo è per davvero. Allora mi rimetto in strada e comincio a discendere il paese e dunque il monte. Sono le ore più calde della giornata e malgrado sia in discesa e non debba pedalare il sole arde sul collo e sulla schiena. Il vento mi asciuga il sudore e soffia caldo sul volto. Le curve che prima avevo scalato con fatica ora scivolano lisce sotto le ruote. Ho le mani strette intorno al manubrio e talvolta utilizzo i freni per regolare l'andatura. Mi sento bene. Poco più avanti la strada si fa rettilinea e la pendenza diminuisce. E' qui che incontro un altro ciclista. Lo saluto, accennando un movimento del capo, lui mi risponde con la mano. Leggo la fatica sul suo volto. Proseguo agilmente. Ben presto la discesa terminerà e mi troverò nuovamente al bivio del primo paese, forse incontrerò nuovamente il ragazzo in moto. Arrivo. La strada diviene più grande. È una statale non troppo trafficata, rettilinea e le poche macchine passano veloci. Potrei prendere nuovamente il percorso dell'andata per tornare indietro, essendo ancor meno trafficata, ma decido diversamente. C'è qualcosa che voglio andare a vedere. Per un bel pezzo non arrivano macchine nella corsia che sto percorrendo, mi tengo tuttavia ben sulla destra. Poi cominciano a passarne alcune. La pendenza è quasi nulla e posso affondare sui pedali. Comincio ad aumentare la velocità ed al cambio d’andatura sostituisco le marce. Non faccio attenzione e la catena esce dalla corona. Si bloccano i pedali ed anch'io sono costretto a fermarmi. La catena è ben oliata e sul ciglio della strada dove mi sono messo si colorano le mani di grasso. Cerco di capire cosa abbia sbagliato ma in realtà non capisco granché, forse gli ingranaggi, e così la catena, sono un po' logori. Dopo qualche minuto mi rimetto sul sellino e riprendo a pedalare. Mi accordo, in effetti, che bisogna fare attenzione a non scalare di troppe marce alla volta perché qualche metro più in là, la catena esce di nuovo. Spinta dall'ingranaggio deve aver fatto qualche movimento bizzarro, e così è saltata fuori. Mi fermo e la rimetto a posto. Forse sulle bici moderne le catene non vanno mai in sciopero. Finalmente riprendo a pedalare, comincio a prendere velocità e la strada è ancora libera. Continua a correre diritta di fronte a me, mi sto avvicinando. Ben presto dovrei cominciare a vedere la sagoma fra i pochi alberi. Vi vengo raramente. Bisogna, infatti, prendere la macchina o procurarsi un altro mezzo, in quanto non esistono servizi pubblici che leghino il posto con la città. Qui il tempo non esiste. La sua struttura si erge silenziosa, dignitosa ma silente, protetta da una luce diafana contro l'ambiente che la circonda: è ciò che resta della città romana, ciò che è fuggito all'avidità della terra che ne cela i sui tesori. La punta di un iceberg riportata alla luce grazie alla forza di pochi, che amaramente nel cartello informativo, ritto di fronte all'entrata, chiosano augurandosi che le ricerche non si fermino dove sono tuttora. La struttura meglio conservata è l'arena, non cantore di un'epoca passata quanto testimone del presente. Lego la bicicletta al cancello. Non ci sono guardiani, addetti che vendano biglietti ai turisti. Scavalco la recinzione che è alta poco più di un metro. Faccio un giro per la città. Poi entro nell'arena e vado a sedermi nel mezzo. Mi chiedo quanti abbiano la possibilità di sedersi nel mezzo di un antico edificio romano. Ben presto però mi stufo, ho letto ogni cartello ma tutto questo mi sembra che perda un po' di senso. Allora faccio un ultimo giro e vado verso la bicicletta. Mi metto di nuovo in sella e decido di tornare a casa, sono stanco. Saluto la città e mi rimetto velocemente in strada. Ben presto arrivo ad un bivio fra la strada su cui sto viaggiando ed un'altra arteria regionale. Qui le macchine diventano più frequenti e bisogna fare attenzione. Fortunatamente incontro un altro ciclista. Lui sta arrivando da una strada che scende dall'alto e che confluisce nella prima statale. Si ferma all'incrocio, giusto affianco a me. È un ragazzo, probabilmente della mia età. Sembra esperto ed allora dopo averlo salutato gli chiedo come si possa tornare in città evitando di passare per la statale. Lui mi spiega che si può seguire una vecchia strada che corre parallela alla grande ma meno trafficata, taglia per dei campi. Mi faccio ben dire la direzione e dopo aver attraversato l'incrocio mi tengo sulla destra in modo da entrare, come arriverà, nella strada indicatami. Le macchine ora passano veloci di fianco ma intravedo già la deviazione che mi è stata consigliata. Arrivo e la prendo di filata. Non sento più il rumore dei motori che mi sorpassano a pochi centimetri. La strada corre giusto parallela alla statale, separata da una fila di campi coltivati. Sembra condurmi verso la città, è stretta, ma di macchine non ne passano. Talvolta incrocio un cane od un altro ciclista. Sono già passati dieci o quindici minuti da quando ho svoltato, la strada prosegue sempre nella stessa direzione. I campi coltivati, più la città si avvicina, diminuiscono. Poco avanti addirittura spunta una discarica dal nulla. È proprio sul lato sinistro della strada. Quando le passo affianco, rallento un secondo, in effetti mi accorgo che non è propriamente una discarica. È piuttosto una sorta di sfasciacarrozze in disuso. Sono accatastate decine di carcasse di vecchi veicoli. Mostri ingialliti dalle fauci voraci. La ruggine li ricopre e domina. Faccio attenzione ad evitare una buca ed accelero nuovamente. Ormai sono prossimo alla città, intravedo l'ospedale. Sono costretto ad incrociare di nuovo la statale. Mi fermo ad un semaforo. È rosso. Mentre aspetto, giro la testa dall'altra parte e vedo nel cortile di una casa una vecchia vettura bianca. Non capisco bene se qualcuno la stia mettendo apposto, perché sono costretto a partire. Il semaforo è verde. Attraverso la statale e vado nuovamente per le strade tagliate dai binari del tram che ancora non è passato. Allora mi avvio verso casa. Mi rendo conto che da qui sarà tutta in salita e sono ormai già da molto con la marcia più leggera. Il sole è forte e le gambe cominciano a farmi un po' male. Ho la maglietta coperta di sudore, ho sete e non porto con me dell'acqua. In più già da tempo lo stomaco chiede del cibo. Ma sono già entrato in città e ben presto sarò a casa. Continuo a pedalare contro il sole che batte. Le curve sembrano moltiplicarsi e vorrei scendere e continuare a piedi, trasportando la bicicletta a mano. Mi trovo sulla salita che conduce alla piazza della grande fontana. Quando le passo affianco vorrei gettarmi dentro l’acqua, solo per scoprirne la temperatura. Non c'è nessuna macchina. La strada improvvisamente torna in piano e mi rendo conto di essere arrivato. Corro per i vicoli ed eccomi finalmente davanti la porta di casa. Freno di colpo e metto il piede sinistro per terra. Scendo con la convinzione che il sedere mi farà male per giorni. Appoggio la bicicletta al muro. Apro il marsupio e tiro fuori la chiave. Ho un po' di male ad aprire, ma eccomi che metto la bicicletta in cortile. La maglietta è completamente bagnata, disegna delle pieghe intricate sul petto. I piedi sono gonfi e le gambe rosse. Devo puzzare parecchio. Attraverso tutto il cortile, circondato da vasi d’azalee fiorite. Cammino fino alla cucina ed apro il rubinetto. L'acqua esce con molta pressione, in un getto uniforme. Mi bagna la faccia intorno alla bocca ed è fresca quando la sento scendere fino allo stomaco. Sul tavolo deve esserci qualcosa, ho molta fame, ma prima farò una doccia.
Carlo Ferri
5 Dicembre 2005
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